La fama delle virtù di Antonio aveva già varcato i confini del deserto prima ancora della sua morte.
Attorno a lui si erano radunati molti discepoli, desiderosi di seguire il suo esempio e di aprire un dialogo diretto con Dio. Uno di questi, S. Atanasio, dopo la morte del Santo scrisse la sua vita, sottolineando l'impegno del Santo Eremita nel combattere le forze del male.
Senza prendere alla lettera alcuni strani racconti, che sanno di leggenda, si nota come il deserto divenne fucina spirituale nella scelta di Antonio: Dio o il suo nemico.
Questa peculiarità della vita del Santo ne rendono attuale la figura e il suo operato.
Fu venerato in modo particolare dal popolo, che faceva ricorso a lui contro la peste e le malattie contagiose.
La sua festa, fin dal 473, fu celebrata il 17 gennaio, sia in Oriente che in Occidente. I nostri antenati, dopo averlo venerato in una chiesetta situata nella contrada "Sant'Antonio Raitu" (Eremita), fuori le mura dell'antico paese, in aperta campagna, nei primi anni del '600, spinti d'amore filiale, trasferirono il culto nella antica e maestosa Matrice, dove Gli dedicarono il terzo altare, sul lato sinistro della chiesa.
La vecchia chiesetta "fuori le mura", risparmiata dalla lava, divenne luogo di eremitaggio per laici, monaci e sacerdoti del luogo, fino alla prima metà dell'Ottocento. Oggi è totalmente scomparsa.
I Misterbianchesi fuggiaschi, in seguito all'eruzione del 1669, riportarono il culto nel nuovo paese e tra le prime feste ripristinate troviamo proprio quella di S.Antonio Abate, nell'anno 1695. Nel 1750 lo elessero, con grande entusiasmo, a loro protettore e da allora venne solennizzata la "festa grande", che dal 17 gennaio venne differita alla domenica in Albis <per il tempo troppo piovoso>, come si legge nella petizione inviata al vescovo.
Nel corso degli anni la data della festa venne cambiata diverse volte: nell'ultima domenica di agosto, nella terza domenica di maggio e, infine, nella prima domenica di agosto. "La grande bara addorata, con dudici apostoli" viene citata in un inventario del 1790, insieme a "una statua di detto Santo con aureola d'argento e con baculo"; forse si tratta della statua ceduta agli abitanti di Camporotondo.
Alla fine del detto inventario troviamo elencate ben otto "varette" (candelore): "Quella del clero e del magistrato; quella delli ortolani; quella dei maestri manganelloti; quella dei cordonari, due dei massari e due dei vigneri"; oggi se ne contano solo quattro.
Una commissione, eletta dal vescovo, su proposta del Comune, aveva il compito di riscuotere le gabelle dei cittadini e il denaro deliberato di anno in anno dal Comune; quindi organizzava la festa tutti gli anni.
I festeggiamenti al Santo Patrono vennero interrotti soltanto in quegli anni in cui erano in corso i lavori per il completamento della Chiesa Madre, e il denaro raccolto per la festa veniva impegnato per la nuova fabbrica.
Il resto è storia recente